martedì 8 agosto 2023

Agilulfo a Barbieland

Lo confesso, la coincidenza è innanzitutto temporale: qualche giorno fa sono andata a vedere Barbie, il film di Greta Gerwig di cui tutti parlano (a ragione) e ieri ho vissuto una splendida giornata in compagnia di un caro amico di adolescenza: Il cavaliere inesistente di Italo Calvino. Cercherò di non svelare nulla, ma insomma, non ve l'assicuro!

Barbie

Già alla visione del film, che - lo dico subito - ho apprezzato moltissimo (e che va al di là della questione femminismo/antifemminismo), qualcosa mi suggeriva una somiglianza tra le scene delle "battaglie" dei Ken e le battaglie degli eroi cavallereschi, ma ieri ho avuto un'illuminazione. Barbie e Agilulfo (il cavaliere inesistente, appunto) sono quasi lo stesso personaggio.


Agilulfo è infatti il perfetto cavaliere: armatura impeccabile, uomo tutto d'un pezzo (è il caso di dire), colto, intelligente, abile conversatore. Peccato che non esista, come Barbie, appunto, che è LA bambola perfetta. Entrambi conducono la loro perfetta esistenza, l'uno nel mondo molto imperfetto della corte di Carlomagno e l'altra in una sorta di Eden, finché qualcosa spezza le loro certezze e incrina armature e piante dei piedi.

Per entrambi, questa incrinatura ha a che fare con la corporeità: per Barbie è il pensiero della morte, che porta con sé la comparsa della cellulite, l'insonnia e dei piedi (guarda caso, come la Sirenetta: rimanere coi piedi ben piantati a terra può essere una tortura, almeno all'inizio). Agilulfo, che non può dormire perché se dormisse si deconcentrerebbe e potrebbe sparire, apparentemente snobba il corpo mortale dei compagni, ma quando il giovane Rambaldo gli parla del suo amore per Bradamante (cap. V), la sua reazione totalmente irrazionale è rivelatrice:

Il giovane [Rambaldo] non sapeva da che punto cominciare, non sapeva fingere pretesti per arrivare a quell'unico argomento che gli stava a cuore. Così, arrossendo, disse: - Conoscete Bradamante?

A quel nome, Gurdulù che stava avvicinandosi stringendo al petto una delle sue composite fascine, diede un salto. Per aria si sparpagliò un volo di legnette, di rami fioriti di caprifoglio, di basce di ginepro, di fronde di ligustro.

Agilulfo aveva in mano un'affilatissima bipenne. La brandì, prese la rincorsa, la diede contro un tronco di quercia. La bipenne passò l'albero da parte a parte tagliandolo di netto, ma il tronco non si spostò dalla base, tanto esatto era stato il colpo.

- Che c'è, cavalier Agilulfo! - esclamò Rambaldo in un soprassalto di spavento. - Che vi ha preso?

Agilulfo ora a braccia conserte esaminava il tronco intorno. - Vedi? - disse al giovane. - Un colpo netto, senza la più piccola oscillazione. Osserva il taglio com'è dritto.

Non avere un corpo ripara da alcuni problemi, non da altri. Se Gurdulù (la cui prima apparizione nel capitolo III mi ha ricordato la vicenda reale di Konrad Lorenz e dell'ochetta Martina) è talmente immerso nella materia da immedesimarsi con qualsiasi oggetto, persona o animale, Agilulfo è il suo esatto contrario, ascetico e impassibile. Prima ho riportato la fine del capitolo V, ma nello stesso capitolo vi è la scena potentissima dei tre (Agilulfo, Gurdulù e Rambaldo) che svolgono il compito di seppellire i soldati dopo la battaglia. Qui ognuno dei tre riflette sulla mortalità e sulla corporeità: se Agilulfo è tutto mente e Gurdulù tutta materia, Rambaldo è invece colui che impara a esistere tutto intero:

"O morto, io corro corro per arrivare qui come te a farmi tirar per i calcagni. Cos'è questa furia che mi spinge, questa smania di battaglie e d'amori, vista dal punto donde guardano i tuoi occhi sbarrati, la tua testa riversa che sbatacchia sulle pietre? Ci penso, o morto, mi ci fai pensare; ma cosa cambia? Nulla. Non ci sono altri giorni che questi nostri giorni prima della tomba, per noi vivi e anche per voi morti. Che mi sia dato di non sprecarli, di non sprecare nulla di ciò che sono e di ciò che potrei essere. Di compiere azioni egregie per l'esercito franco. Di abbracciare, abbracciato, la fiera Bradamante. Spero che tu abbia speso i tuoi giorni non peggio, o morto. Comunque per te i dadi hanno già dato i loro numeri. Per me ancora vorticano nel bussolotto. E io amo, o morto, la mia ansia non la tua pace."

La stessa cosa forse avrebbe potuto dirla anche la controparte umana di Barbie, Gloria (il personaggio interpretato da America Ferrera): essere umani implica morte, ansia e incertezza. Ma noi amiamo la nostra ansia, non la pace di chi non può (più) provare queste cose.

La cosa diventa evidente nell'episodio della notte... in bianco nel castello di Priscilla: mentre Gurdulù se la spassa con le fantesche e le sguattere (che se lo passano di mano in mano senza troppo coinvolgimento), l'ammaliante Priscilla non riesce a scalfire di un millimetro la bianca armatura di Agilulfo, totalmente immune al suo fascino, che comincia a parlare con lei di ogni argomento possibile fino all'alba. La nottata si conclude per tutti i personaggi, ma la conclusione del capitolo VIII è fantastica:

[...] Padrona, diteci di lui, del cavaliere, eh? com'era Agilulfo?

- Oh, Agilulfo!

E cosa dire di Bradamante, la celebre paladina, che Rambaldo insegue pensando sia un uomo e invece poi scopre essere una donna - in una scena che ci rende chiaro che Bradamante NON è Barbie, mettiamola così. Mentre leggevo questa scena esilarante pensavo all'ultima battuta del film Barbie (che non riporto per non rovinarvi la visione).

La Bradamante di Calvino è umana, umanissima: innamorata non corrisposta di Agilulfo perché

[...] quando una si è tolta la voglia di tutti gli uomini esistenti, l'unica voglia che le resta può essere solo quella d'un uomo che non c'è per nulla...

Obiettivamente, il rischio dell'idealizzazione è pericoloso e lei vi si sottrae solo alla fine, dopo aver scontato le sue pene (e anche qui non vi dico nulla perché il piacere di leggere questo breve romanzo non va guastato).

Ma come va a finire al povero Agilulfo? Il suo valore di cavaliere, e quindi la sua stessa esistenza, viene messa in dubbio e a repentaglio dalla rivelazione del giovane Torrismondo, deluso dalla vita tra i paladini e con il miraggio dei Santo Ordine del Graal. Anche qui, questo episodio ha a che fare con la corporeità (femminile) oltre che con le tipiche agnizioni e colpi di scena dei romanzi.

Come pretendere esattezza scientifica in qualcosa che è difficile da definire come le passioni dell'essere umano? La sua armatura immacolata di cavaliere si infrange, è il caso di dirlo, proprio su questo punto: il suo disonore non ammette l'attesa di un ultimo colpo di scena. Qui ricorda un po' le parole che Barbie dice al povero Ken, invitandolo a cercare se stesso senza farsi definire da nessun altro/a.

Ma è proprio a questo punto che l'involucro, vuoto, viene riempito dal corpo di Rambaldo, il cui primo atto, dopo essersi messo alla prova e aver ammaccato e rovinato l'armatura in battaglia, è andare da Bradamante. E lei? Sarà pronta ad accoglierlo anima e corpo?

Insomma, sì: secondo me, Barbie è Agilulfo che alla fine per fortuna riesce a diventare Rambaldo (e un po' Bradamante). Anche Barbie deve rinunciare alla propria perfezione, ma riesce a evolversi, mentre il povero Agilulfo, che stava antipatico a tutti, lascia in eredità la propria armatura al giovane tanto ansioso di vivere (come Bradamante).

Dopo aver letto il libro, magari guardate anche il geniale film di animazione che ne è stato ricavato da Pino Zac nel 1971 (qui lo potete trovare intero): in esso alcuni riferimenti vengono interpretati in modo più esplicito. Nel film la scena della notte con Priscilla ricorda molto da vicino una delle scene cruciali di Barbie, tra l'altro.

Il cavaliere inesistente: la locandina del film

Non parla solo di questo, Il Cavaliere Inesistente. Godibile a prescindere, letto adesso rivela ancora una volta tutte le sue qualità di classico. Vi si legge in controluce tutta l'assurdità della guerra e le vicende del secondo dopoguerra, i rapporti tra maschile e femminile, addirittura (e se ne rendeva conto anche Calvino) l'impatto dell'Intelligenza Artificiale e - cosa estremamente interessante - la scrittura. Lascio a voi il piacere di scoprire questi e altri temi. Fatemi sapere che ne pensate!

venerdì 28 luglio 2023

Se brucia la memoria...

Ho aperto il blog per scrivere questo post e ho visto che l'ultima volta avevo scritto di Capo Gallo, un pezzo del mio cuore.

Nelle ore tra il pomeriggio del 24 luglio e le due notti seguenti, mani assassine (a meno che non vogliamo credere nell'autocombustione) hanno appiccato il fuoco a tutte le montagne intorno alla mia città, da Monte Grifone a Monte Gallo. Tutte. Si salva solo Monte Pellegrino, giusto perché non fa parte della corona di monti che delimitano la Conca d'Oro ma è a sé. La temperatura già rovente (47°C registrati e già previsti da diversi giorni) ha completato l'opera. 

(Qui quello che è rimasto della Riserva)

Sono stati giorni d'inferno (e ancora in parte brucia la discarica di Bellolampo). Non saprei come altro descriverli. L'angoscia aumentata dal non sapere, dal leggere notizie delle persone care vicino al fuoco, dei luoghi amati consumati dalle fiamme è ancora grande. 

Adesso mi guardo intorno: il mio orizzonte sono queste montagne, carbonizzate. Leggo in molte altre persone gli stessi miei sentimenti: rabbia, impotenza e tristezza. Tralascio le polemiche, ma una volta di più chi dovrebbe amministrare non lo ha fatto, e mi limito a dire questo.

Monte Cuccio, la montagna a forma di montagna, come la chiama qualche mio amico, San Martino, Monte Grifone, la Moharda, Montagna Inserra, Gibilmesi, Pizzo Manolfo, Monte Gallo...

Pronuncio i nomi e sento davvero il cuore dolere. 

Ecco, ho imparato tardi i nomi e tardi ho imparato a conoscerli più da vicino, almeno alcuni di essi. Mi è servito leggerli sui libri dell'Ottocento per conoscerli, perché con i loro nomi si è persa la memoria, almeno in chi vive al centro della piana che una volta era la Conca d'Oro. Li guardiamo e a stento ne riconosciamo alcuni. Ma se li chiami per nome stabilisci un legame con loro, e li guarderai con altri occhi.

Oltre a ettari ed ettari di boschi, animali e terra bruciata (e oltre soprattutto a tre vittime, diversi intossicati e infortunati, case distrutte e famiglie sfollate), la nostra città ha perso un pezzo importantissimo della propria storia e della propria memoria artistica, religiosa e spirituale. Nel giro di un pomeriggio, il 25 luglio scorso, è stata distrutta la chiesa del Convento di Santa Maria di Gesù, costruita tra il XIII e il XV secolo. Di qui passò anche Sant'Antonio da Padova nel suo viaggio in Sicilia. Luogo importantissimo nei secoli passati, nel cui cimitero tutti i nobili facevano a gara per essere seppelliti (e infatti vi sono diverse cappelle nobiliari e sepolture celebri, tra cui quella dei Florio, trascuratissima, di Paolo e Rita Borsellino e di tanti altri), per la maggior parte dei palermitani è stata una scoperta solo delle ultime ore, ahimè. 

Ciò che rende speciale questo luogo è una persona vissuta qui tra il 1566 e il 1589: San Benedetto da San Fratello, compatrono di Palermo ancora prima di Santa Rosalia e ancora prima di essere proclamato beato. Questo umile frate, saggio, con il dono della chiaroveggenza, veniva consultato da tutti, dal Viceré alla mamma preoccupata per il figlio lontano. 

Purtroppo anch'egli ora quasi dimenticato (se non fosse stato riscoperto negli anni della sindacatura Orlando e riportato alla luce in tutta la sua complessità lo sarebbe proprio del tutto), io stessa l'ho riscoperto in Brasile grazie alla mia amica Raquel: è IL santo di tutte le popolazioni di origine africana presenti in America Latina, popolarissimo, direi quasi la versione "nera" di sant'Antonio. San Benedetto infatti era figlio di schiavi provenienti da un non meglio precisato paese dell'Africa. E la sua pelle era scura.

Il suo corpo riposava intatto (o quasi) nella sua chiesa, nel convento, insieme a quello del Beato Matteo, fino allo scorso lunedì. Adesso i resti, messi in salvo dagli stessi fedeli, attendono di essere ricomposti.

Tutte le parti in legno della chiesa sono andate perse. Tutte, anche la statua della Madonna, Santa Maruzza, risalente al 1470 circa, che racconta più di una storia. Se foste andati al convento prima sarebbero stati lieti di raccontarvela di persona davanti a lei.

La prima riguarda proprio il suo ritrovamento: come accade spesso nelle storie delle statue, tutto cominciò con una carestia, alla quale rimediò una nave carica di grano. La popolazione fu molto riconoscente al capitano di questa nave, il quale, commosso per la gratitudine popolare, volle ricambiare con una statua della Madonna. Ma dove lasciarla? La statua fu messa su un carro trainato dai buoi che furono lasciati liberi di andare dove li guidasse il volere divino. Fecero una prima sosta nei pressi dell'Oreto, per riposarsi, e qui venne costruita la chiesa dedicata appunto alla Madonna del Buon Riposo (che fu poi distrutta da un bombardamento nella Seconda Guerra Mondiale). Dopo questa sosta, però, i buoi ripartirono e la meta finale divenne proprio il convento di Santa Maria di Gesù dove la statua venne collocata.

La statua di Santa Maruzza

Ma a questo punto, passa qualche decennio, e il nostro San Benedetto, cuoco del convento, spesso stava intere mattinate letteralmente nella chiesa proprio davanti alla statua di Santa Maruzza, come veniva popolarmente chiamata. Ogni tanto la Marunnuzza gli affidava il Bambinello e il nostro Benedetto se lo cullava. Ma una mattina, quando già era tardissimo per mettersi a cucinare, il Santo fu richiamato all'improvviso dai confratelli. Con il Bimbo in braccio si scosse e la Marunnuzza gli venne in soccorso: si prese u Picciriddu, ma quando ritornò statua il Figlioletto le rimase un po' scivolato tra le mani. E infatti è così che era rimasto, questo Gesù Bambino...

incisione che ricorda il miracolo della statua di Santa Maruzza
tratta dal volume San Benedetto il Moro 
santità, agiografia e primi processi di canonizzazione,
pubblicato a cura della Biblioteca Comunale di Palermo 

Ecco. Ecco cosa rimane di Santa Maruzza. Solo una statua di legno? No. Questa era la nostra memoria, la nostra storia. Dimenticata. Bruciata. 


Quello che ne rimane

Vi prego, non dimenticate questa storia. Non dimentichiamo Santa Maria di Gesù.

Qui la mia ultima passeggiata su Monte Grifone, lo scorso autunno, proprio fino all'Eremo del Santo.

§§§

Per chi volesse contribuire al recupero della Chiesa del Convento di Santa Maria di Gesù, riporto le informazioni date dai Frati Minori: 


RIPARA LA MIA CASA…
Ricostruiamo insieme la casa di Benedetto il Moro
Noi Frati Minori di Sicilia,
la comunità di Palermo e di San Fratello (ME),
per far fronte a questa situazione difficile in cui versano la Chiesa e il Convento di Santa Maria di Gesù in Palermo, ci stiamo facendo promotori di una campagna di raccolta fondi che ci aiuti a rimediare ai danni causati dall’incendio dello scorso 25 luglio.
Donare è semplice,
se vuoi puoi farlo online con carta di credito o PayPal collegandoti al nostro sito
oppure con bonifico bancario intestato:
PROVINCIA DEI FRATI MINORI DI VAL MAZARA S. BENEDETTO
IBAN: IT 02 M 02008 04615 000104482428
Causale: Incendio Santuario San Benedetto il Moro - Palermo
Puoi contribuire anche condividendo questa iniziativa con i tuoi contatti.
Il Signore conceda a tutti noi di poter fare la propria parte, di continuare a dare il proprio contributo, per poter ricostruire con speranza il futuro.





giovedì 22 giugno 2023

Fuori stagione

Il mio luogo del cuore è senza dubbio questo, la Riserva Naturale Orientata di Capo Gallo, per la precisione il versante che dà sulla Punta Barcarello.

Ho cominciato a frequentare questo luogo poco prima dell'inizio della pandemia, nel febbraio 2020, in tutte le stagioni tranne quella estiva: i motivi sono tanti, primo fra tutti la calura pomeridiana che non incoraggia la salita.

Frequento questo luogo come si frequenta un amico e a poco a poco me ne sono innamorata, senza riserve direi, se non sembrasse un facile gioco di parole. Ho cominciato a percorrere più volte lo stesso sentiero lungo la costa, imparando a riconoscere le piante dalla forma delle foglie, memorizzandone gli angoli nascosti e i colori cangianti del cielo, del mare e della terra a seconda dell'altezza del sole. Individuo l'altra isola, quella più lontana, appena metto piede dentro la riserva, intuendola azzurra dietro l'orizzonte, oltre quello scoglio.

Una volta dopo l'altra, ho intrapreso nuovi sentieri che mi hanno aperto ogni volta a nuovi incontri, sebbene fatti spesso degli stessi ingredienti. Non c'è stata una volta uguale all'altra.

Amo venire qui quando non c'è nessuno, ma mi fa piacere condividere il cammino incrociando brevemente altri iniziati, come fossimo parte dello stesso segreto.

Il tempo è dato ogni volta dal calare più o meno rapido del sole, d'inverno dietro le montagne, in primavera e in autunno dietro l'isolotto che rende unico questo paesaggio controluce. Conosco i profili dei monti, sono tracciati dentro di me.

Rimango qui fino al tramonto, naturalmente. L'ora che volge al desìo, come dice il Poeta. Tramonti ne esistono tanti, ma come questi non ce n'è.

Ieri per la prima volta sono salita nel pomeriggio del giorno più lungo dell'anno, quello del solstizio d'estate, e per la prima volta ho visto come ancora è cambiato il mio luogo del cuore. I frutti che stanno maturando hanno mutato il volto alle piante che già conoscevo e nuovi colori mi hanno fatto accorgere di esseri che non avevo ancora visto.

Durante il cammino, mi hanno fatto compagnia le lucertole, attentissime ad ogni minimo mio movimento. Mi scuso con loro per averle fatte spaventare per non aver saputo mantenere intatto il silenzio.

Il messaggio è arrivato chiaro: frequentami anche d'estate, è adesso che trovi i miei frutti, ciò per cui fatichiamo tutti su questo pianeta. Tutto si compie e finalmente ha il suo senso, ma devi metterti in cammino e venire a guardare con i tuoi occhi. Fino al tramonto, ma anche di più.



sabato 7 gennaio 2023

"Una passeggiata d'inverno - Camminare" di Henry David Thoureau

Questo primo mese d'inverno è stato, almeno in Sicilia, una specie di primavera fuori stagione: le pomelie (o plumerie, se non siete palermitani, o frangipani se volete essere internazionali) non solo non hanno perso le foglie, ma ne stanno mettendo di nuove. Decisamente insolito per il mese di gennaio. 

Per fortuna, ne ho approfittato per delle splendide passeggiate poco fuori città, con panorami mozzafiato e soprattutto un cielo "che sembra di smalto", per citare Paolo Conte.
Ho da poco incontrato un gruppo di donne veramente in gamba che amano camminare nella natura e spero di poter continuare a camminare anche con loro e allargare i miei orizzonti.

Le nostre uscite per ora sono state per i sentieri di Monte Pellegrino, con il fenomenale panorama sul golfo di Mondello che si può ammirare da lassù, poi una interessante passeggiata alla scoperta di Baida, piccolo (ma non tanto quanto pensavo) sobborgo montano che era per me insospettabile fino a qualche giorno fa e che invece è ricco di storia. E infine una splendida passeggiata mattutina per i sentieri di San Martino. Non proprio avventurosissimo, ma questo mi può bastare, anche perché ovunque - ma proprio ovunque - si manifesta la meraviglia.

In questi giorni, dunque, ho ripreso in mano un libro che avevo acquistato tempo fa, durante Una Marina di Libri (esattamente edizione 2021 a Villa Filippina, se non vado errata): Una passeggiata d'inverno di Henry David Thoureau, edito La Nuova Frontiera e tradotto da Tommaso Pincio, con le splendide illustrazioni di Rocco Lombardi.

Questa edizione contiene anche il famosissimo breve testo Camminare, ma devo dire che ho apprezzato di più la descrizione della passeggiata invernale. Anzi, mi ha fatto riflettere su quanto questo calore inatteso sia così deleterio per la Natura, sebbene possa risultare benefico al nostro umore - al di là di ogni altro danno dovuto al cambiamento climatico. Abbiamo bisogno di riposare, di concentrarci... e questo tepore meraviglioso ci conduce invece fuori, all'aperto, giustamente, dal nostro punto di vista. L'apparente morte invernale è invece necessaria anche a noi, che siamo parte del tutto, ma non ce ne rendiamo conto.

Questo è per me il primo libro del nuovo anno (messi momentaneamente da parte quelli che stavo leggendo) e vorrei cominciare a prenderne nota per non dimenticarmene. Nel mio quaderno ho diligentemente ricopiato un brano tratto da Camminare che inserisco anche qui perché ha a che fare con lo scrivere (le parti in grassetto e la suddivisione schematica in punti sono mie):

Dov'è la letteratura che dà voce alla Natura? 

Per dirci poeti dovremmo 

  • saper piegare al nostro servizio venti e corsi d'acqua, affinché parlino per noi; 

  • inchiodare le parole al loro significato primordiale, alla maniera in cui, in primavera, i coltivatori ribattono nel terreno i pali scalzati dal gelo; 

  • risalire all'origine delle parole ogni volta che le si usa, trapiantarle nella pagina insieme alla terra ancora attaccata alle loro radici; 

  • disporre di parole così vere, vive e naturali che sembrano espandersi come gemme quando la primavera è vicina, malgrado fatichino a respirare schiacciate tra due fogli ammuffiti nel chiuso di una biblioteca; che fioriscano proprio lì di anno in anno e offrano frutti al lettore fedele, in base alla loro specie e in sintonia con la Natura circostante. (pp.97-98)

Ecco. Proprio mentre sto cercando di mettere a fuoco cosa voglio che sia questo nuovo anno creativo (sapendo per esperienza che non saprò coltivare tutti i semi gettati in questi giorni), queste parole di Thoreau mi sembrano indicare un sentiero ben praticabile.

Ad maiora!

venerdì 6 gennaio 2023

Alza gli occhi intorno e guarda

 

Non scrivo qui da un bel po' e nel frattempo siamo entrati nel 2023.

Oggi è il giorno dell'Epifania (nonché il compleanno di mio fratello, ma questo è incidentale) e stamattina mi sono ritrovata ad ascoltare le letture della festa come se le sentissi per la prima volta.

In particolare, le parole di Isaia, tutte così piene di luce e di splendore, risuonano in me nuovissime e profonde.

Alzati, rivestiti di luce

Alzati, intanto: non si può rimanere fermi in mezzo a tutta questa luce... un attimo? ma quale luce?

...la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli...

Ecco, appunto, tenebra e nebbia fitta, sta parlando proprio di noi, in questo tempo allucinato dove l'orizzonte sembra scomparso del tutto e non si vede a un palmo dal naso. Eppure, basta alzare lo sguardo e alzarsi in piedi per vedere oltre.

Alza gli occhi intorno a te e guarda

Guarda. Quante volte mi sono ritrovata a dire ad alta voce questa parola, solo questa, anche se ero da sola e quindi in realtà la dicevo a me stessa. 

Guarda. Ci sono cose così evidenti che non hanno bisogno di spiegazione. Possono apparire romantiche o sognatrici, e probabilmente lo sono. Ma semplicemente ci sono, in barba a tutte le nebbie e le tenebre di questo mondo. Basta aprire gli occhi, volerli aprire, e alzare lo sguardo.

Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore

Anche io, se imparo a guardare semplicemente, potrò lasciarmi illuminare dallo sguardo di un altro. E il cuore, questo muscolo che a volte sembra proprio addormentato ma che per fortuna non smette di fare il suo lavoro, si allarga fino a battere in sintonia con ciò che ha intorno.

Ecco, allora: questo è il mio augurio per me e per te che mi leggi: alzare gli occhi intorno e guardare.

Buon anno e buono sguardo creativo a tutte e a tutti!


domenica 25 settembre 2022

Follie

La divisa invernale
 

Qualche giorno fa sono tornata a visitare l'Ospedale Psichiatrico di Palermo, un complesso architettonico davvero notevole ma soprattutto un luogo che evoca tante storie che, apparentemente distanti, in realtà ci riguardano tutti.  

Ero stata a visitare il complesso della Vignicella l'anno scorso: la ricostruzione delle camerate e il museo degli strumenti rendono solo parzialmente ciò che doveva essere la vita qui dentro. Forse quello che impressiona di più è l'enorme quantità di faldoni pieni di documenti e carte abbandonate nella stanza che dovrebbe fungere da archivio. Ognuna di quelle carte contiene almeno una storia e ancora una volta la memoria delle vite di queste persone, relegate al margine della città per nasconderle alla vista della società civile, rischia di perdersi del tutto.

 
La Vignicella, ex casa di campagna dei Gesuiti,
poi utilizzata come succursale della Real Casa dei Matti del Barone Pisani

Questa volta, la nostra guida è stata Sebastiano Catalano, una persona davvero encomiabile che ha lavorato in questo luogo quando la sua funzione era notevolmente cambiata, dopo la legge 180.
Per la prima volta dunque sono entrata nei padiglioni nati tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento. Se è possibile utilizzare il termine "affascinante" per questo luogo, ecco, beh, lo utilizzerò. 

L'emozione nel percorrere questi lunghi portici, e gli altrettanto lunghi corridoi, è tanta. Il pensiero va alla mia prozia, sorella germana di mio nonno, che qui ha lavorato per tanti anni e che sicuramente doveva portarsi dentro tanta pena per le persone che qui erano recluse.


Tanti erano i motivi per cui si poteva finire qui dentro e non tutti avevano a che fare con la malattia mentale: talvolta era un modo per escludere qualche fratello o sorella da un'eredità, o sbarazzarsi di una moglie o di una figlia vagamente "strane". 

Qui venivano allevati anche i figli illegittimi, che non avevano alcuna patologia ma erano destinati a essere esclusi dalla società per una "colpa" che non avevano commesso.

Una follia, senza dubbio: quella di chi ha adottato questo sistema per risolvere un problema imbarazzante.

Entrare qui dentro significa infatti fare i conti con una parola che spesso pronunciamo con troppa leggerezza: normalità. Chi stabilisce che cosa è la norma e chi è normale?

In molte di queste persone, se solo entriamo in punta di piedi nelle loro storie, potremmo rischiare di rispecchiarci e ritrovarci: una tendenza a sognare, a immaginare, un'inclinazione malinconica o soltanto uno sconfinato bisogno di essere amati, se giudicati fuori norma, aprivano le porte di questo luogo. 


Tra i padiglioni che abbiamo visitato, c'è un giardino intitolato a Maria Ermenegilda Fuxa, una delle ospiti dell'Ospedale Psichiatrico di cui - grazie anche al signor Catalano e agli studi di Maria Teresa Lentini - si conosce meglio la storia e soprattutto la poesia.


Entriamo calpestando le foglie che già formano un tappeto in questo giardino. Il suono di questo luogo evoca le passate stagioni, e la presente e viva, soprattutto quando viene letta la prima poesia di Maria Fuxa:
Sospiri di foglie morenti

Mi distrugge / un grave peso... Incatenata / io sono in una fossa... / Sento il caldo richiamo /del vasto luminoso azzurro, / ma il gelo di grate mi piaga... // Mi avvelena / la tristezza della prima foglia / che cade morta, già, / quando tante verdi foglioline /gioiosamente danzano... // Il mio cuore batte / al soffocato ritmo / dei sospiri di foglie morenti...

Arrivare qui perché il dolore è troppo forte e ti fa perdere la ragione: Maria Fuxa visse qui perché il suo fidanzato la tradì con la sorella gemella, che poi sposò. Visse qui perché, venendo a mancare i genitori, l'unica parente che le rimaneva era la sorella snaturata, come la chiama nei suoi versi. 



La poesia le salvò la vita, letteralmente. 
Amava il cielo azzurro e di certo come me amava le nuvole che si colorano durante il trascorrere del giorno. E non posso fare a meno di pensare a quante persone (donne soprattutto, guarda caso, penso ad Antonia Pozzi) hanno vissuto sul filo del confine tra "normalità" e follia.

 

(Penso anche che in altri tempi avrei potuto finirci anche io qui dentro.)

La visita mi ha fatto tornare in mente il film che ho visto mercoledì, L'immensità di Emanuele Crialese, e lo struggente libro L'estate del '78 di Roberto Alajmo: storie di donne, di famiglie, di coppie, di figli e figlie, di persone che a un certo punto non reggono più. Ma il fatto che a un certo punto uno non regga più non vuol dire che sia folle: forse a volte vuol dire che non accetta più il fatto che tutto quello che li circonda sia considerato normale.

Di questo parla anche, in parte, un libro che ho divorato in anteprima ieri... ma ve ne parlerò prossimamente!

venerdì 16 settembre 2022

Epifanie

Tempo di ripresa, in cui tutti i tasselli si vanno mettendo a posto. Il quadro quest'anno per me è nuovo per molti motivi e per molti versi: nuova scuola, nuovi colleghi, nuovi alunni che ancora non conosco, nuove forze da misurare sul mio corpo (che è nuovo pure lui) e nuove strade da percorrere.

Lungo una di queste strade, impigliato tra le foglie verdissime, mi è apparso qualche giorno fa un rametto con dei grani di falso pepe. Queste piccole perle rosa, in contrasto con il verde delle foglie, mi hanno lasciato senza parole. Il rametto era già staccato e si trovava proprio all'altezza dei miei occhi.

Ho pensato che già da solo quel rametto con i granelli era una poesia. Poi ho pensato anche che sarebbe stato bene in una composizione.

E così, tornata a casa, il rametto è diventato il mio modello. Ma dopo tanti scatti, il migliore è questo:


Semplicemente, questo rametto, con i suoi colori che vanno via via modificandosi quasi impercettibilmente con il passare delle ore, è. Esiste nella sua perfezione senza merito, e a noi non resta che ammirarlo a bocca aperta.

Ieri invece mi sono data all'esplorazione della forma circolare, che mi attrae molto ma in cui ancora non mi sono avventurata. Sto imparando molto dalle artiste che ho trovato in rete: il flatlay, come mi ha insegnato la mitica Bernulia (Giulia Bernardelli, di cui tutti sicuramente conosciamo il lavoro ad esempio con il caffè), non è soltanto un modo attraente di fare pubblicità. Comporre è un atto creativo con effetti sensibili sia in chi compone che in chi osserva. Molte artiste (finora ho trovato solo donne!) compongono opere che sono un incanto e una gioia per gli occhi e per l'animo. 
Da loro imparo continuamente: ad esempio dall'australiana Meagan Gardiner ho appreso un facile trucchetto per cimentarmi nei tondi.


circle time 1

circle time 2



Per caso ho scoperto il profilo Instagram di Mary Jo Hoffman e il suo blog STILL
Quest'artista incredibilmente generosa e raffinata mi ha ispirato non solo per le bellissime creazioni, ma anche per queste parole che ho trovato in uno dei suoi post. 

Le lascio qui a futura memoria per me.