Ho aperto il blog per scrivere questo post e ho visto che l'ultima volta avevo scritto di Capo Gallo, un pezzo del mio cuore.
Nelle ore tra il pomeriggio del 24 luglio e le due notti seguenti, mani assassine (a meno che non vogliamo credere nell'autocombustione) hanno appiccato il fuoco a tutte le montagne intorno alla mia città, da Monte Grifone a Monte Gallo. Tutte. Si salva solo Monte Pellegrino, giusto perché non fa parte della corona di monti che delimitano la Conca d'Oro ma è a sé. La temperatura già rovente (47°C registrati e già previsti da diversi giorni) ha completato l'opera.
(Qui quello che è rimasto della Riserva)
Sono stati giorni d'inferno (e ancora in parte brucia la discarica di Bellolampo). Non saprei come altro descriverli. L'angoscia aumentata dal non sapere, dal leggere notizie delle persone care vicino al fuoco, dei luoghi amati consumati dalle fiamme è ancora grande.
Adesso mi guardo intorno: il mio orizzonte sono queste montagne, carbonizzate. Leggo in molte altre persone gli stessi miei sentimenti: rabbia, impotenza e tristezza. Tralascio le polemiche, ma una volta di più chi dovrebbe amministrare non lo ha fatto, e mi limito a dire questo.
Monte Cuccio, la montagna a forma di montagna, come la chiama qualche mio amico, San Martino, Monte Grifone, la Moharda, Montagna Inserra, Gibilmesi, Pizzo Manolfo, Monte Gallo...
Pronuncio i nomi e sento davvero il cuore dolere.
Ecco, ho imparato tardi i nomi e tardi ho imparato a conoscerli più da vicino, almeno alcuni di essi. Mi è servito leggerli sui libri dell'Ottocento per conoscerli, perché con i loro nomi si è persa la memoria, almeno in chi vive al centro della piana che una volta era la Conca d'Oro. Li guardiamo e a stento ne riconosciamo alcuni. Ma se li chiami per nome stabilisci un legame con loro, e li guarderai con altri occhi.
Oltre a ettari ed ettari di boschi, animali e terra bruciata (e oltre soprattutto a tre vittime, diversi intossicati e infortunati, case distrutte e famiglie sfollate), la nostra città ha perso un pezzo importantissimo della propria storia e della propria memoria artistica, religiosa e spirituale. Nel giro di un pomeriggio, il 25 luglio scorso, è stata distrutta la chiesa del Convento di Santa Maria di Gesù, costruita tra il XIII e il XV secolo. Di qui passò anche Sant'Antonio da Padova nel suo viaggio in Sicilia. Luogo importantissimo nei secoli passati, nel cui cimitero tutti i nobili facevano a gara per essere seppelliti (e infatti vi sono diverse cappelle nobiliari e sepolture celebri, tra cui quella dei Florio, trascuratissima, di Paolo e Rita Borsellino e di tanti altri), per la maggior parte dei palermitani è stata una scoperta solo delle ultime ore, ahimè.
Ciò che rende speciale questo luogo è una persona vissuta qui tra il 1566 e il 1589: San Benedetto da San Fratello, compatrono di Palermo ancora prima di Santa Rosalia e ancora prima di essere proclamato beato. Questo umile frate, saggio, con il dono della chiaroveggenza, veniva consultato da tutti, dal Viceré alla mamma preoccupata per il figlio lontano.
Purtroppo anch'egli ora quasi dimenticato (se non fosse stato riscoperto negli anni della sindacatura Orlando e riportato alla luce in tutta la sua complessità lo sarebbe proprio del tutto), io stessa l'ho riscoperto in Brasile grazie alla mia amica Raquel: è IL santo di tutte le popolazioni di origine africana presenti in America Latina, popolarissimo, direi quasi la versione "nera" di sant'Antonio. San Benedetto infatti era figlio di schiavi provenienti da un non meglio precisato paese dell'Africa. E la sua pelle era scura.
Il suo corpo riposava intatto (o quasi) nella sua chiesa, nel convento, insieme a quello del Beato Matteo, fino allo scorso lunedì. Adesso i resti, messi in salvo dagli stessi fedeli, attendono di essere ricomposti.
Tutte le parti in legno della chiesa sono andate perse. Tutte, anche la statua della Madonna, Santa Maruzza, risalente al 1470 circa, che racconta più di una storia. Se foste andati al convento prima sarebbero stati lieti di raccontarvela di persona davanti a lei.
La prima riguarda proprio il suo ritrovamento: come accade spesso nelle storie delle statue, tutto cominciò con una carestia, alla quale rimediò una nave carica di grano. La popolazione fu molto riconoscente al capitano di questa nave, il quale, commosso per la gratitudine popolare, volle ricambiare con una statua della Madonna. Ma dove lasciarla? La statua fu messa su un carro trainato dai buoi che furono lasciati liberi di andare dove li guidasse il volere divino. Fecero una prima sosta nei pressi dell'Oreto, per riposarsi, e qui venne costruita la chiesa dedicata appunto alla Madonna del Buon Riposo (che fu poi distrutta da un bombardamento nella Seconda Guerra Mondiale). Dopo questa sosta, però, i buoi ripartirono e la meta finale divenne proprio il convento di Santa Maria di Gesù dove la statua venne collocata.
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La statua di Santa Maruzza |
Ma a questo punto, passa qualche decennio, e il nostro San Benedetto, cuoco del convento, spesso stava intere mattinate letteralmente nella chiesa proprio davanti alla statua di Santa Maruzza, come veniva popolarmente chiamata. Ogni tanto la Marunnuzza gli affidava il Bambinello e il nostro Benedetto se lo cullava. Ma una mattina, quando già era tardissimo per mettersi a cucinare, il Santo fu richiamato all'improvviso dai confratelli. Con il Bimbo in braccio si scosse e la Marunnuzza gli venne in soccorso: si prese u Picciriddu, ma quando ritornò statua il Figlioletto le rimase un po' scivolato tra le mani. E infatti è così che era rimasto, questo Gesù Bambino...
Ecco. Ecco cosa rimane di Santa Maruzza. Solo una statua di legno? No. Questa era la nostra memoria, la nostra storia. Dimenticata. Bruciata.
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Quello che ne rimane |