martedì 27 gennaio 2015

La banalità del male vs La libertà del bene

Posto qui un articolo uscito sul numero di gennaio 2015 del Messaggero di Sant'Antonio, numero davvero meraviglioso, con articoli interessanti da leggere e meditare con attenzione.
Tra questi, un articolo sulla Giornata della Memoria nel 70° anniversario della liberazione dei prigionieri di Auschwitz, che riporto per gentile concessione dell'autrice Cristina Uguccioni e della redazione del Messaggero di S. Antonio, con la speranza che sia questo il senso della memoria: ricordare il male che c'è stato ma anche il bene che sempre ci può essere.


LA LIBERTA' DEL BENE
di Cristina Uguccioni
Negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, in Israele andò maturando la convinzione che accanto al ricordo del male e delle vittime della Shoah dovesse esservi spazio per la valorizzazione degli uomini che contro il male avevano lottato. A Gerusalemme, lo Yad Vashem, l'ente nazionale israeliano per la Memoria della Shoah, decise di istituire la Commissione dei Giusti, che era ed è ancora oggi incaricata di rintracciare e onorare i "Giusti tra le nazioni": questa espressione designa i non ebrei che durante la Shoah, disinteressatamente e a rischio della vita, hanno salvato la vita di un ebreo. I Giusti sino a oggi riconosciuti, e ai quali sono dedicati gli alberi del bellissimo giardino dello Yad Vashem, sono 25.271. Di questi, 610 sono italiani. Molti sono sacerdoti, religiosi e religiose che la Chiesa ci ha fatto conoscere; alcuni, come il ciclista Gino Bartali e il gioielliere Costantino Bulgari, sono personaggi noti, altri ancora, come Giorgio Perlasca, lo sono diventati a seguito di film di successo.
La maggior parte dei Giusti, tuttavia, ci sono del tutto sconosciuti: le loro storie, contenute nei dossier della Commissione, raccontano di uomini e donne di ogni età e condizione sociale che nell'infuriare della guerra, mentre il mondo cadeva a pezzi e la barbarie sembrava inarrestabile, si mossero a compassione e fecero ciò che sapevano essere giusto: a rischio della propria vita protessero e salvarono ebrei conosciuti e sconosciuti, li aiutarono a nascondersi, a trovare nuove identità, a valicare confini. Molti Giusti sfruttarono le loro posizioni influenti: ad esempio, Giuseppe Caronia, direttore della clinica di malattie infettive dell'ospedale Umberto I di Roma, che riuscì a evitare la deportazione a decine di ebrei, ricoverandoli nei reparti da lui seguiti e coinvolgendo in quest'opera di soccorso anche il personale dell'ospedale.
Storie come perle
Nella maggior parte dei casi, però, il salvataggio consisteva nel fornire un nascondiglio in casa. A Roma, Alberto Ragionieri e la moglie Clelia, genitori di due bambine, salvarono la vita ad alcuni loro conoscenti in cerca di aiuto - la famiglia Piperno, di quattro persone - aprendo le porte del loro appartamento di tre locali. I Ragionieri si ritirarono in una sola stanza, dormendo in parte per terra, e cedettero la seconda ai Piperno; vissero così per mesi, prodigandosi anche per curare il piccolo Roberto Piperno quando, il 17 ottobre 1943, il giorno dopo la tragica deportazione degli ebrei del ghetto, fu colpito da febbre tifoide e non fu possibile condurlo in ospedale.
Luigi Grasso, salumiere di Fossano (CN), e la moglie Maria, genitori di nove figli, diedero rifugio per diciotto mesi a nove membri di una famiglia che non conoscevano, fuggita da Torino: i Foà. Offrirono loro una casa che avevano appena preso in affitto in una frazione del paese, e la dotarono di tutto il necessario: dalla biancheria agli utensili da cucina al cibo. Grasso avvisò inoltre gli abitanti della piccola frazione, accertandosi che si rendessero disponibili, in caso di emergenza, a nascondere di Foà nei loro fienili.
 A Padova viveva Regina Bettin, sposata e madre di due figli, che era stata bambinaia presso la famiglia Sacerdoti. Spaventata dopo aver saputo che in città era transitato un treno carico di ebrei catturati a Roma il 16 ottobre, cercò la signora Sacerdoti, offrendosi di tenerle i bambini, Lia e Michele. Regina ospitò i due piccoli facendoli passare per suoi nipoti e si prese cura di loro per oltre otto mesi sino a quando Sacerdoti riuscì a ottere i documenti falsi per tutta la famiglia e poté trovare alloggio a Schio (VI).
Giuditta Drigo di Portogruaro (VE), la figlia Elsa e il genero Gino Bellio accolsero nella propria casa per quasi un anno una famiglia di quattro persone a loro sconosciuta, i Falk, fuggiti da Fiume. Si ingegnarono anche a costruire un nascondiglio nello spazio sotto le scale, che portava a una piccola stanza dietro la cucina, celata da una credenza, dove i Falk correvano a rifugiarsi nei momenti di maggior pericolo, che furono molti: un fascista di Fiume era infatti arrivato a Portogruaro e li stava cercando. 
Teresa Antonini, dopo aver lavorato come cameriera nella casa del rabbino Marco Vivanti, si era trasferita a Riano Flaminio (RM) dove il marito Pietro aveva un forno. Venuta a conoscenza del pericolo che correva la famiglia Vivanti, composta da otto persone, la invitò a condividere la sua abitazione. Gli Antonini lasciarono al rabbino e alla moglie la propria camera da letto, scegliendo di dormire per terra, accanto alla stufa. Il resto della famiglia fu sistemato nella stalla. Furono mesi di grande pericolo: vicino alla casa vi era una base militare tedesca e i soldati avevano l'abitudine di andare al forno ogni sera per mangiare pane fresco e bere vino. La famiglia Vivanti restò nascosta per nove mesi, sino alla liberazione di Roma, il 4 giugno 1944. Solo in seguito Teresa e Pietro scoprirono che una spia li aveva denunciati ai tedeschi e che il 10 giugno avrebbero dovuto essere fucilati sulla piazza del paese insieme alla famiglia ebrea.
Le storie di questi Giusti raccontano che anche in un tempo duro, pericoloso e di grande povertà come quello di guerra è possibile agire con giustizia  e proteggere gli indifesi con bontà e fermezza. È grazie a questi Giusti e a tutti i giusti della storia che il  mondo - da sempre - va avanti, che la comunità umana tiene, rimanendo "comunità" e "umana". Ed è grazie a loro che poi anche gli altri possono ritrovare coraggio e non cedere alla rassegnazione o alla disperazione di fronte all'avvilimento e alla malvagità.
Non diamo credito a quanti oggi, in Occidente, descrivono gli esseri umani come macchine biologiche protese solo all'egoistica soddisfazione dei propri bisogni, abitate da un desiderio che è soltanto autocentrato e dominatore. Non diamo credito a quanti oggi propongono come via certa per la felicità la cura ossessiva di sé, tanto più riuscita quanto più si separa dai vincoli con gli altri. Certamente la sotira è attraversata da una lunga scia di sangue, prepotenze e sopraffazioni, ma il tessuto intimo della sua trama svela incanti quotidiani in cui si intrecciano gesti di liberazione dal male, sacrifici compiuti per la felicità altrui, gesti di cura tenace e amorevole, creazioni che rendono il mondo una casa in cui è bello per tutti abitare.

La generazione di questi incanti è nel grembo stesso di Dio.